La ‘strana’ storia dell’Orfismo dalla mitologia antica all’arte moderna, Articolo di a.R.D. pubblicato su www.pittart.com, anno 2014, nella rubrica ‘Langolo critico’.
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Testo:
Orfeo: chi era costui? Nel mondo antico fu il mitico musico della Tracia, sposo della ninfa Euridice, morta in seguito al morso di una serpe mentre sfuggiva al pastore Aristeo. Orfeo, grazie alla leggiadria dei suoi canti poetici, impietosì Plutone, divinità custode degli Inferi, il quale gli concesse di riportare in vita l’amata ma a patto di non voltarsi mai indietro per guardarla durante il percorso d’uscita dal regno dei morti. Il desiderio di vedere la fanciulla adorata ebbe però il sopravvento e dunque Euridice ripiombò inesorabilmente nell’eterno buio della morte. L’inconsolabile poeta in seguito perse la vita per mano di alcune donne tracie indispettite per il suo rifiuto a convolare ad altre nozze.
Al mitico musico vennero attribuiti i ‘Canti orfici’ (in realtà già Aristotele dubitava della sua vera esistenza) ma di fatto sono da considerarsi opera di grammatici e filosofi cristiani della scuola alessandrina; la letteratura greca invece denominò ‘orfici’ alcuni scrittori misterici che decantavano Dioniso Zagreo (una setta diffusasi nella Grecia del VI° sec. a.c., la quale si definiva fondata da Orfeo e affermava che il mondo terreno non è altro che un luogo di preparazione alla vita superiore a cui si giunge attraverso il merito e con riti propiziatori o cerimoniali che costituivano le pratiche segrete della setta. In greco il termine ‘Catarsi’ significa ‘purificazione’ in quanto il corpo si libera dalle contaminazioni; con l’influsso delfico (il mito di Apollo) e dell’orfismo questo concetto assunse un valore più strettamente religioso e ciò avvenne soprattutto perché si trattava di un culto a carattere esoterico sorto per sopperire a quel senso dell’arcano a cui le filosofie nella Grecia di quei tempi non rispondevano. Non a caso i maggiori portavoce ne furono pitagorici, eraclitei, seguaci di Empedocle e platonici.
Pur dovendo affermare che l’importanza attribuita all’Orfismo nella connotazione dei caratteri della filosofia greca promossa da alcuni filologi e studiosi nei primi del Novecento non è più stata riconosciuta negli anni successivi, in epoca moderna il termine assunse però una sua collocazione proprio nel primo periodo del XX° secolo grazie a Guillaume Apollinaire, poeta e letterato italo /francese, che certamente ne trasse spunto dal suo poemetto satirico-idilliaco ‘Le Bestiaire d’Orpheè’ (risalente all’anno 1900) e che costituì il punto d’intersezione tra la fine di un’epoca, quella ottocentesca e il nuovo secolo. Il poeta era amico di Ungaretti, sosteneva i fauves e il Cubismo: il suo ‘Bestiario’ rappresentava un trait-d’union tra la sua istintuale tendenza al non–sense e il sagace stile narrativo dei bestiari medievali, nel contempo il suo concetto di arte pittorica s’innestava tra la concretezza cubista e la raffinata eleganza dell’Art Nouveau.
Nel 1912 Apollinaire coniò ufficialmente il termine ‘Orfismo’ (o ‘cubismo orfico’) in occasione della mostra ‘Der Sturm’ a Berlino per definire gli stili pittorici della nuova generazione impersonata da Delaunay, Picabia e Kupka, i quali, attraverso la vitalità dei colori, la sinuosità e l’armonia del cerchio concentrico in movimento, si distanziavano dal rigido e monocromatico cubismo della prima maniera di Picasso e Braque. Il riferimento di Apollinaire al mitico Orfeo fu per definire una pittura evocativa o, com’egli stesso affermò “un piacere estetico puro, una costruzione che colpisce i sensi e un significato sublime, ossia, il soggetto. E’ arte pura”. In fondo è la medesima dimensione del sogno in cui si riconosce l’arte letteraria di Dino Campana. La nuova generazione dell’Orfismo, auspicando la nuova forza di dinamismo rotatorio in perpetuo movimento, concettualmente entra in sinergia anche con la definizione di ‘Spazio-Tempo’ del Futurismo italiano. Ad un certo momento però, la pittura evocativa di Robert Delaunay assume una posizione pienamente autonoma nei confronti del Cubismo. Opere come le sue “Fenètres” vengono da lui stesso definite “…Frasi colorate…”. Il cromatismo assume la caratteristica di essere fine a sé stesso definendo così una tendenza sempre più accentuata verso il raggiungimento di una dimensione astratta. Nei suoi quadri dedicati alla Tour Eiffel invece l’oggetto e lo spazio si scompongono e ricompongono integrandosi tra loro attraverso il gioco della luminosità: secondo Delaunay in effetti la luce possiede la capacità di modificare le forme: “… I piani colorati sono le strutture stesse del quadro, la natura non ha più da essere il soggetto di una raffigurazione bensì un puro e semplice pretesto”.
Anna Rita Delucca (Anno 2014) Copyright
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Articolo pubblicato anche su Ingresso-Libero, rivista bimestrale d’arte, lettere, fotografia, N.29, novembre 2016, p.12 .
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